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Carlo Mazzacurati e “La sedia della felicità”: intervista allo sceneggiatore Marco Pettenello

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Riprendiamo un’intervista del regista Matteo Oleotto a Marco Pettenello, sceneggiatore di La sedia della felicità di Carlo Mazzacurati, uscita su Kino Review.

di Matteo Oleotto

Nel 2004 Rai Cinema chiese a noi allievi dell’ultimo anno del Centro Sperimentale di Cinematografia di scrivere dei soggetti. Io scrissi una storia rigorosa, ambientata nella mia terra. Dopo alcuni giorni arrivarono i responsi e della mia storia dissero che “di Carlo Mazzacurati, in Italia, ne bastava uno solo”.

Da quel giorno, di Mazzacurati, ho voluto sapere tutto. Ho guardato con passione tutti i suoi film, quelli bellissimi e quelli meno riusciti. Ho seguito con attenzione le sue interviste. Non ho mai perso l’occasione di farmi raccontare da chi Carlo lo conosceva bene, com’era quest’omone che faceva film che sentivo così tanto vicini.

Un paio di mesi fa, mi dissero che aveva visto Zoran e l’aveva trovato un film “sorprendente e rigoroso”.

Avrei voluto conoscerlo di persona, magari per berci un bicchiere e fare due chiacchiere. Oggi so che questo giorno non arriverà più. Una delle cose che mi avevano colpito di lui era una sua frase che avevo sentito in un’intervista. Diceva: “Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile, sempre”.

Un paio di giorni fa mi è stato proposto di fare una piccola intervista all’amico Marco Pettenello riguardo l’ultimo film di Carlo. Ho accettato molto volentieri la proposta. Se non altro, per me, è l’occasione per scoprire, ancora di più, chi era Carlo Mazzacurati.

Ti ricordi il giorno in cui Carlo ti ha chiesto di lavorare insieme a lui?

Già quand’ero piccolo gli piaceva il fatto che mi interessasse il suo lavoro. Credo fosse in cerca di sguardi semplici su quello che faceva,  e spesso mi faceva leggere quello che scriveva. Ricordo quando lessi il soggetto di “Notte Italiana”, battuto a macchina. Avrò avuto quattordici anni eppure, mentre gli dicevo cosa ne pensavo, lui era molto nervoso, agitato dalla paura sincera che non mi fosse piaciuto o che non l’avessi capito. Ripensandoci oggi, era una situazione molto divertente.

Poi un giorno a Padova, a poco più di vent’anni, passai a salutare Carlo dopo essere stato a pranzo da mia nonna. Stava lavorando assieme a Franco Bernini, Umberto Contarello e Claudio Piersanti. Stavano scrivendo una scena del un trattamento di un film che poi non si è mai fatto, una specie di commedia ambientata a Padova.

Carlo mi disse ‘siediti qua se ti va, noi dobbiamo lavorare’. Io non sapevo nemmeno bene che cosa stessero facendo. La scena su cui lavoravano era il racconto di un ragazzo che doveva accompagnare una signora anziana in un parco pubblico per seppellire il suo cane. Mi ricordo che a un certo punto, sentendomi come se stessi tra amici, dissi: ‘e se passasse un tossico che chiede dei soldi?’. Credo che quello sia stato il mio primo contributo al cinema italiano: un tossico che chiede dei soldi.

Qualche tempo dopo Carlo mi chiese se avessi avuto voglia di lavorare seriamente con lui.

La prima cosa a cui ho lavorato è stata la sceneggiatura di un film sulla vita di Dino Campana, che poi non è mai diventato un film. C’era anche Claudio Piersanti e io facevo un po’  da aiutante, facevo delle ricerche, portavo qualche idea, dicevo delle cose ogni tanto. Avevo 25 anni e studiavo Scienze Politiche all’Università di Padova, mi stavo per laureare ma poi ho abbandonato perché il cinema mi interessava molto di più.

Quando Carlo ti chiamava per una collaborazione, partivate da un suo spunto preciso o è anche successo che ti dicesse “vieni, dobbiamo scrivere un film ma non ho nessuna idea”?

Aveva sempre un’idea abbastanza precisa di quello che voleva raccontare. Raramente è successo che ci incontrassimo per chiacchierare senza una meta troppo chiara. Anche quando si partiva in maniera un poco più confusa, dopo qualche giorno di chiacchiere, di solito ci chiamava al telefono e ci raccontava l’idea che gli era venuta. Credo che avesse bisogno di starsene da solo per pensare con calma a cosa voleva raccontare.

In generale Carlo aveva sempre bisogno di una trama abbastanza dinamica e abbastanza forte all’interno della quale far muovere i personaggi. Non era a suo agio quando c’erano bei personaggi a cui non si sapeva che cosa far fare.

Il giorno in cui ti ha proposto il soggetto per l’ultimo film, forse un po’ diverso da quelli fatti in precedenza, gli hai creduto fin da subito o all’inizio eri titubante?

Carlo ultimamente aveva sviluppato un gusto per un tipo di cinema un po’ più artefatto rispetto a quello che faceva prima, artefatto nel senso buono del termine. L’idea de La Sedia della Felicità si prestava per raccontare una storia diversa dai suoi film precedenti. Non era propriamente un’idea da film europeo, composto e realistico, ma si voleva incamminare per una strada più eccentrica, favolistica.

Ricordo quando raccontò a me e Doriana Leondeff il finale che voleva dare al film. Io non capii da subito dove volesse andare a parare, ma lui aveva in testa tutto chiaramente e non abbiamo potuto che fidarci. Il finale è rimasto sempre quello, tranne qualche ritocco che riguarda la storia d’amore tra Dino e Bruna. Ad oggi, avendo visto il film un paio di volte, credo che sia bellissimo.

Quindi sei soddisfatto del risultato della Sedia della Felicità?

Sì molto. È un film molto particolare, unico tra i film di Carlo. Sono molto orgoglioso della sua spensieratezza. È come uno scatolone pieno di cose divertenti. Questa è la terza commedia di Carlo, dopo “La lingua del Santo” e “La passione”. Le altre due sono commedie che a un certo punto virano verso qualcosa di malinconico, film che fanno ridere in certi momenti mentre in altri vanno in cerca di profondità. Qui invece, anche se ci sono entrambe le cose, è come se fossero impastate insieme dall’inizio alla fine, senza mai scindersi. Come capita a molti artisti bravi, Carlo non è mai riuscito a fare un film senza metterci dentro la sua visione del mondo, ma questa volta ce l’ha fatta entrare in un modo nuovo.

Anche lui era molto contento del risultato, credo lo considerasse uno dei suoi migliori film di sempre. Era soddisfatto perché sapeva di lavorare con qualcosa che non aveva mai fatto prima, qualcosa di nuovo per il suo cinema.

Qual è secondo te la più bella sequenza del film?

C’è un momento in cui Valerio Mastandrea e Isabella Ragonese si guardano dai rispettivi negozi. Lo scambio di sguardi è molto intenso, con un bellissimo uso della musica. Questa sequenza l’ha girata Carlo senza che fosse nel copione. Per me è uno dei momenti più belli di tutto il suo cinema.

Carlo amava arrivare sul set con un copione di ferro o spesso improvvisava?

Di solito ci teneva molto a scrivere e riscrivere per perfezionare i dialoghi e i movimenti e arrivare sul set con una sceneggiatura forte. In fase di ripresa aggiungeva a volte al copione dei momenti più propriamente visivi lasciando però intatta la drammaturgia interna del film. Ne ‘La sedia della felicità” invece, ha lasciato improvvisare gli attori più del solito, con risultati direi ottimi.

Il nordest per Carlo Mazzacurati che cos’era?

Una ventina di anni fa Carlo è tornato a vivere a Padova per un bisogno di ritornare in un luogo più tranquillo rispetto a Roma, che é una città che ha amato, ma in cui faceva anche molta fatica. A un certo punto della sua vita ha preferito mettersi un po’ in disparte a coltivare il suo sguardo sul mondo. La sua riflessione, pensando a film come ‘Notte italiana’, ‘Un’altra vita’ o ‘La Passione’, non era una riflessione sul Veneto ma sull’Italia in generale, e lui la faceva da Padova. Si può anche riflettere sull’Italia a Padova, no? Lo si fa a Roma, a Milano o a Napoli, e perché non a Padova?

Credo abbia sempre sentito il bisogno di fare un cinema autentico, di avere la sensazione di stare dicendo la verità, e per fare un cinema autentico si è legato a una terra che conosceva bene. Doveva ascoltare come parla la gente, conoscere il paesaggio, le persone che lo animano, e lui questo l’ha fatto a Padova, ma avrebbe potuto farlo in qualsiasi altro luogo, purché gli fosse familiare.

Poi Carlo era una persona molto colta e per lui il Veneto era innanzitutto il posto che era stato raccontato da Giorgione, Tiepolo, Tiziano, e poi Meneghello, Zanzotto, Parise, un luogo che ha prodotto una grande riflessione culturale e artistica e che poi è stato colpito, negli ultimi decenni, da un’ondata di denaro speso male che l’ha parecchio rovinato.

Fare film in Veneto, secondo me, ha anche di bello che essendo un luogo fondamentalmente infelice, o quantomeno irrisolto, è pieno di conflitti, di energie che girano a vuoto, di desideri frustati. Tutte cose molto utili per inventare storie.

Carlo era così colto?

Leggeva tantissimo, guardava moltissimi film. Quando si parlava di romanzi o di cinema, lui sapeva sempre tutto, e ogni film, ogni scrittore, lo collocava da qualche parte in un mondo che aveva lui nella testa.

Quando non girava, passava intere giornate a letto o sul divano a leggersi romanzi o a guardare film. Gli piaceva proprio. Ma gli piaceva anche stare con la gente. Non c’era un confine tra la vita diciamo di strada e la vita intellettuale, leggere un romanzo, guardare una partita di calcio, passare un pomeriggio a dire cazzate, era tutto fatto della stessa materia. Nel suo lavoro ha cercato di combinare queste due cose: la passione per il racconto e la passione per l’osservazione della vita. Aveva un’intelligenza molto fine, una finezza di pensiero che mi mancherà moltissimo, credo unica tra le persone che ho conosciuto in vita mia. Aveva però anche un’intelligenza molto pratica, e spesso nel lavoro preferiva fare le cose piuttosto che spiegare come avrebbe voluto farle.

Che cosa cercava Carlo nell’arte?

Gli piaceva moltissimo la pittura, e anche qui andava in un certo senso in cerca di una sintesi tra racconto classico e quotidianità. Se pensi a quelle facce di contadini a cui molti pittori del quattro e cinquecento hanno fatto interpretare le scene classiche della Bibbia, quei volti sono un po’ gli stessi che ha cercato di mettere nei suoi lavori. Cos’ come quei quadri, molti dei suoi film hanno trame solide, classiche, che derivano principalmente dalla visione di altri film, ma quelle storie sono vissute da gente autentica, “normale”, che veniva dalla sua osservazione della realtà.

Poi gli piacevano molto i pittori che avevano uno sguardo personale, come Pontormo, Rosso Fiorentino, Giandomenico Tiepolo, il figlio di Giambattista. Dietro i quadri gli piaceva sentire una personalità precisa, lavori magari meno perfetti di quelli di Michelangelo o Raffaello, ma che avevano dietro dei sentimenti, una vita, un destino. Anche se non giel’ho mai sentito dire, penso che gli piacesse pensare in quei termini anche al proprio lavoro. Anche tra i registi italiani degli anni sessanta, gli piacevano più Germi o Pietrangeli che non per esempio Risi.

Quindi, Carlo era una persona curiosa?

Moltissimo. Mi ricordo per esempio un’estate a Roma in cui mi portò al cinema a vedere il film di un giovane regista di cui aveva sentito parlare bene. Era Le iene, ne siamo uscito esaltati e ne abbiamo parlato per giorni. A quell’epoca non l’aveva visto quasi nessuno, e anzi sparì subito dalle sale italiane per uscire di nuovo parecchio tempo dopo, credo dopo Pulp Fiction. Tarantino gli è piaciuto fino a Jackie Brown, poi se n’è stancato, Kill Bill credo non sia neanche andato vederlo. Ecco, Carlo era una uno che arrivava sempre primo, non certo per bisogno di sentirsi avanti, ma perché non poteva stare senza cercare.

Aveva degli ottimi informatori. Anche per quel che riguarda i libri era un mostro. Quando arrivava e mi diceva ‘guarda che questo è un gran libro’, non sbagliava mai. E io nove volte su dieci non conoscevo nemmeno l’autore.

Era così anche nel lavoro?

Penso spesso a La giusta distanza, che secondo me è un film molto riuscito. Io credo che Carlo avrebbe potuto farne altri cento di film di quel genere. Film europei asciutti, tocco leggero, taglio realistico, anche come regista erano quelli che gli venivano più facili. E invece ha sentito il bisogno di cambiare e ha deciso di fare la commedia.

Un Natale gli avevo regalato il documentario di Scorsese su Bob Dylan in cui si racconta la famosa svolta elettrica di Bob Dylan, quando smette di fare canzoni con voce e chitarra acustica, come da lui si aspettavano tutti, e comincia a suonare con una band più rumorosa. Il suo pubblico lo odiava per questo, ma lui evidentemente si era annoiato e voleva cercare nuove strade.

A Carlo il documentario piacque molto, ne parlava spesso. Forse ci vedeva un po’ di se stesso, perché ha sempre avuto voglia di sperimentare cose nuove. Per evolversi, per crescere.

E il Carlo spettatore, che cosa cercava quando guardava un film?

Negli ultimi anni aveva un po’ cambiato gusti, aveva sviluppato una passione per un cinema un po’ eccentrico, i Fratelli Cohen, Wes Anderson, Ubriaco d’amore. Guardava anche molti film di animazione, soprattutto quelli di Miyazaki. In generale, si era interessato ai registi che non avevano paura di inventare mondi improbabili all’interno dei quali muovere storie coerenti. Gli è sempre piaciuto molto Terrence Malick.

L’estate scorsa sono stato a trovarlo, aveva visto Zoran e mi ha detto: “Gran bel film. E poi Oleotto mi sta molto simpatico”. “L’hai conosciuto?” “No, si capisce dal film”.

Vedendo il primo film di Carlo, Notte Italiana, ho intravisto te come sceneggiatore. Che cosa ti ha insegnato Carlo?

Moltissimo, direi quasi tutto. Ho un grosso debito nei suoi confronti. Mi ha insegnato per esempio ad avere fiducia nel mio umorismo, ad avere fiducia in quello che mi piace e a fare dei film che prima di tutto avrei voglia di guardare.

Mi ha insegnato a riconoscere la soglia sotto la quale le cose non sono belle. Ognuno, nel nostro mestiere ha la sua soglia personale, che serve a decidere cose tenere e cosa scartare tra tutta le idee che ti girano per la testa. Lui mi ha passato la sua e credo sia un gran regalo.


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